Napoletano classe 1973, Luca Di Francia – autore del libro Il perfetto barman. Ingredienti, attrezzature, tecniche di preparazione pubblicato a novembre scorso – è uno dei più importanti maestri dell’hospitality italiana. Da quasi 30 anni parte integrante del team bar del 5 stelle lusso The Westin Excelsior Roma, può vantare tra i suoi mentori un ambasciatore del tema: l’esperto bartender Mauro Lotti. Con lui abbiamo parlato di ospitalità, del significato che aveva ieri, di quello che ha oggi e di come sono cambiati i clienti.
Quando ha avuto il Suo primo approccio con il mondo dell’ospitalità?
Fin da giovane. Alle Superiori, mi sono iscritto all’alberghiero e, da subito, mi sono appassionato alla figura del barman. Dopo le mie prime esperienze in ristoranti campani, già all’età di 17 anni, ebbi la fortuna di conoscere Mauro Lotti. Per me era una star del bere e decisi di scrivergli una lettera. Ero disposto a lavorare con lui, anche gratuitamente. Fu addirittura lui che venne all’Eurostars Hotel Excelsior di Napoli. All’epoca ero minorenne e andai a lavorare con lui al Grand Hotel, l’attuale St.Regis Rome.
Che cosa Le diede Mauro Lotti?
Mi diede quello che devono dare i grandi maestri, ovvero tanta passione. Con lui, feci due stagioni al Grand Hotel, alternando il lavoro al mio percorso di studi. Appena diplomato, ricevetti da lui un biglietto di sola andata per l’hotel 5 stelle lusso Hyde Park di Londra, dove rimasi due anni e dove diventai barman supervisor. Dopo un’esperienza al Four Seasons Hotel des Bergues di Ginevra, come barman, fui richiamato da Lotti per una posizione al The Westin Excelsior di Roma. Feci la prima stagione come commis de bar, divenni barman e poi fui chiamato dal direttore per un contratto indeterminato. Questo è il mio ventottesimo anno qui.
Lotti è stato il maestro per me. Grazie a lui, ho potuto apprendere tutte le mie conoscenze sui classici internazionali e, più in generale, sulla miscelazione. Per me, è stato anche un maestro di vita. Mi ha insegnato come approcciarmi al cliente. Io ero ammaliato da lui e dal suo saper fare da gentiluomo. Con gli ospiti, ma anche con le altre persone. Per lui era importantissimo l’aspetto psicologico. Prima di tutto, bisognava capire chi fosse il cliente e perché era venuto al bancone del bar, che lui definiva “un luogo di ricreazione per adulti”. Solo così eravamo in grado di far passare un’ora di piacere, che lui definiva viola, ovvero quella tra il giorno e la notte. E lui ci riusciva sempre.
Ci furono altri importanti mentori per Lei?
Sì, Biagio Zecchinelli, Peter Dorelli, Angelo De Valeri e Salvatore Calabrese. Sono grato a loro di aver imparato così tanto. Mi hanno permesso di dedicare la mia vita al mondo del bere e dell’ospitalità di lusso. Da ognuno mi porto dietro un insegnamento diverso.
Zecchinelli mi ha trasmesso l’importanza di fare squadra e la grande passione che aveva nel proprio lavoro, De Valeri l’organizzazione e il grande impegno, non si è mai risparmiato, Dorelli la grinta, l’energia e l’entusiasmo, ingredienti indispensabili e Calabrese il gran gusto nella miscelazione e l’eleganza. Questi ultimi due hanno poi trascorso gran parte della loro carriera all’estero, dove sono stati molto bravi a raccontare l’italianità e a fare rete tra professionisti. Con loro non ho avuto modo di lavorare a stretto contatto, ma allo stesso modo la loro presenza è stata fondamentale nel mio percorso di crescita.
Cosa significa per lei ospitalità?
Aprire le braccia. Ospitalità è far sentire l’ospite a casa. Per questo, bisogna essere dei veri e propri padroni di casa. Ogni ospite dev’essere trattato con i guanti bianchi. Per me l’ospitalità è intima, direi casalinga. Quando una persona viene al bar, è che come se entrasse a casa mia. Proprio per questo, penso sia importante non far sentire i nostri clienti esclusivamente ospiti, ma coinvolgerli nel nostro mondo, che in realtà è anche loro. In questo senso, riveste un importante ruolo la divisa. Per fare ospitalità, bisogna essere eleganti e coerenti con il locale in cui si lavora. In un bar d’hotel, è importante avere giacca, camicia e cravatta. Ma l’abito non fa il monaco. La divisa è fondamentale, ma bisogna anche saperla indossare. Altrimenti, è meglio non metterla.
La sua carriera lavorativa è stata un peregrinare in tutto il mondo. Ha trovato delle differenze nell’approccio all’ospitalità da un Paese all’altro?
Sì, decisamente. Ogni paese in cui ho avuto modo di praticare la mia professione mi ha dato qualcosa per completare il mio profilo professionale. Dalla Francia e dall’Inghilterra ho appreso il garbo e la discrezione, dall’Asia l’attenzione verso i clienti e dal Sudamerica e dall’Italia il calore.
Crede che i bartender d’oggi non diano più tanto peso all’ospitalità?
Direi che i tempi sono diversi. Per mia fortuna, io sono cresciuto in un tempo di mezzo. Ho visto la scuola prima della mia e ho visto quella attuale. Oggi si vuole apparire, ma non si sa ascolta ascoltare. I barman di oggi danno troppa importanza al proprio ego e meno alle esigenze dei clienti. È cambiato il modo di fare ospitalità. Mentre prima noi avevamo l’opportunità di imparare il bon ton dai nostri clienti, adesso sono i clienti stessi a esigere un servizio più snello, legato all’effetto wow e non alla qualità intrinseca della materia prima offerta.
Come sono cambiati i clienti da quando ha iniziato a lavorare?
I clienti sono cambiati tantissimo. Una volta, era più semplice intrattenere una conversazione con un cliente, anche se non abituale. Oggi, quello che manca è vedere i clienti dimenticarsi telefonini e computer e godersi un’ora di piacere. A volte, vedo una difficoltà nel relazionarsi persino tra i clienti stessi. Il nostro ruolo, oggi, consiste anche nel creare l’atmosfera giusta perché si instauri una conversazione. Purtroppo, oggi siamo molto più bravi a comunicare dietro uno schermo che faccia a faccia.
La relazione tra noi e i clienti, invece, dipende anche dalla nostra proposta di miscelazione. Vedo che molti colleghi, oggi, fanno drink prebatchati, anche senza avere una necessità in termini di affluenza di clienti. La figura del barman si riassume in questo? Io non credo, perché così si snatura la parte più bella e affascinante del nostro lavoro. La gente si siede al nostro bancone anche per vedere la nostra eleganza e manualità. Se io preparo drink espressi, faccio capire al cliente che in quel momento è la persona più importante per me. Se preparo un drink prebatchato, sto tralasciando il senso di ospitalità.
Crede che il concetto di ospitalità si evolverà ancora nei prossimi anni? Se sì, come?
Non so dare una risposta certa. Il cliente ha sete di esperienza e vuole qualcosa di innovativo. Molte volte, però, l’innovazione sta nel ritorno alla semplicità, che in questo caso significa far star bene le persone distanti da casa.