In questa prima parte dell’intervista Javier de las Muelas si racconta dagli esordi, la carriera e i nuovi progetti in corso, esprimendo il suo punto di vista su tematiche molto interessanti: dalla nascita del primo Dry Martini fino alle sue visuali sul concetto di tradizione e accoglienza.
Chi era prima di diventare Javier de Las Muelas?
Ho studiato Medicina e allo stesso tempo ero iscritto alla scuola di Architettura di Barcellona. Fin da studente sono sempre stato abituato a lavorare, durante il mio secondo anno di Medicina lavoravo come promoter per i concerti di musica rock e in qualche modo la mia carriera professionale ha finito per dirigersi verso il mondo dell’hospitality. Da piccolo vivevo in un quartiere di Barcellona dove c’era una mescita, che vendeva vino e ghiaccio, ai tempi i frigoriferi non avevano i freezer. Era un luogo d’incontro, dove la gente del quartiere si riuniva a bere una birra o una bibita per passare il tempo. Poi un giorno, era il 1979, decisi che di quel posto ne avrei fatto un bar e, al contrario delle correnti hippy dell’epoca, lo trasformai in un classico cocktail bar, dove i barman indossavano giacche bianche dai bottoni dorati…In quel momento nacque il Gimlet.
Ci racconta la storia del primo Dry Martini? Chi lo ha aperto e lei quali innovazioni ha introdotto?
Il primo Dry Martini Bar è stato aperto a Barcellona nel 1978 da Pedro Carbonell, che è stato il mio maestro senza aver mai avuto pretese. All’epoca ero una persona molto timida e quando lavori in un bar devi essere estroverso, persuasivo, per me stare dietro un bancone è stato come una specie di terapia. Frequentavo il Boadas, il cocktail bar che si trova sulla Rambla che consideravo come la cattedrale dei bar. Poi una volta entrato al Dry Martini mi sono reso conto che a paragone era il Vaticano.
Quando decise di trasformarlo in un marchio? Che canoni ha seguito per riprodurre l’atmosfera dell’originale e come ha scelto i suoi collaboratori, come Lucio D’Orsi e la città di Sorrento?
Ho comprato il Dry martini nel 1996 e decisi di trasformarlo in un marchio, con il massimo rispetto per la sua storia. Durante i primi anni l’unico cocktail che si serviva al bancone era il Dry Martini. Per me l’essenziale era seguire una linea classica, le nuove tecniche moderne non sono così incisive e per me ciò che conta è conservare la tradizione. Ho studiato così Economia e sono riuscito a mettere assieme tutti i pezzi. Il mio modello di impresa consiste nell’associarmi alle compagnie di hotel di lusso, perché sono sempre localizzate nei posti migliori della città. Non è stato facile uscire dalla zona di comfort lontano dalla Spagna e da Barcellona. Disponiamo di varie tipologie di format, all’estero come in Spagna: a San Sebastiàn e a Madrid.
Lavoriamo molto seguendo un protocollo di stile ben preciso, è un sistema che ci permette di rendere autonoma la compagnia alberghiera dal personale, diciamo che ai barman stellati preferisco i team affiatati. Ho collaborato spesso con gente preparatissima tecnicamente ma non a livello lavorativo. Mi fido molto della relazione che ho con i partners e gli hotel, sono loro che mi danno una mano con l’organizzazione amministrativa e la supervisione delle mansioni giornaliere dei 19 locali che ho registrato sotto il mio marchio. Abbiamo scelto Sorrento perché quando ci siamo incontrati con Lucio D’Orsi e Giulia Rossano ho avvertito una certa chimica tra noi, e poi perché sono attratto e apprezzo tutto ciò che è italiano. Di solito apriamo solo nei 5 stelle, ma abbiamo fatto un’eccezione per una volta, Giulia e Lucio loro stessi sono un 5 stelle. Il lusso sono loro.
Preferisce la tradizione o l’innovazione?
Senza dubbio la tradizione. Preferisco la pasta al pesto preparata dalla mamma al posto della riproduzione di un piatto di uno chef con 3 stelle Michelin. Viviamo in un’epoca dove abbiamo diverse opportunità e grande scelta a livello di ingredienti. I cocktail classici, tuttavia, sono sempre validi e attuali dopo 50 anni, con solo 2 o 3 ingredienti come: il Negroni, l’Americano, Il Dry Martini o il Gin tonic; mentre al giorno d’oggi i barman creano cocktail senza senso con 12 ingredienti. Per quanto riguarda il lato scenico vanno benissimo, anche a me piace il circo, però deve essere un circo di qualità tenendo sempre presente che si sta offrendo un servizio. Per me il protagonista della storia del bar non è dietro un bancone, sarò ripetitivo non è chi ci lavora, ma il cliente che è lì per godersi appieno la sua esperienza.
Cosa la stimola nell’andare avanti e migliorarsi? Ha in programma un Dry Martini diverso dai precedenti?
È la passione e la ricerca di interlocutori ricettivi. Cerco di dare valore a tutto quello che faccio senza accantonare nulla. Mi piacerebbe aprire un Dry Martini un po’ innovativo, con attori, musicisti…mischiare il classico con la pazzia. Per esempio, mi piacerebbe trasformare una caraffa di acqua da 8 litri in una bottigliera, avere un barman dai capelli rossi in gonna scozzese. E forse aprirlo a Manhattan o Tokyo chissà!
Quanto conta per lei il concetto di buona accoglienza?
Per me il concetto di hospitality è qualcosa di meraviglioso e ogni volta che lavoro in un progetto cerco sempre di trasmettere questa filosofia dell’accoglienza. Al momento sto lavorando in un progetto con la catena di gioielleria Rabat, dove ci occupiamo di formare il personale nell’arte dell’accoglienza. Al Dry Martini di Madrid abbiamo allestito uno spazio dedicato esclusivamente al tè, in cui il concetto di accoglienza è la base. Offriamo diverse varietà di tè, ognuna con il suo tempo di infusione e temperatura d’acqua specifica.
traduzione di Clelia Mumolo