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The Botanist, quando il gin gioca in casa del whisky.

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the botanist

Immaginate un luogo dove il vento porta con sé i profumi selvaggi dell’oceano e delle erbe autoctone, dove la natura incontaminata incontra l’arte della distillazione. Benvenuti sull’isola di Islay, un angolo remoto della Scozia conosciuto per i suoi whisky torbati, ma anche per una gemma unica nel mondo dei gin: The Botanist.

Prodotto dalla storica distilleria Bruichladdich, The Botanist non è un gin come gli altri. Nasce dalla passione per il territorio, dall’innovazione e da una filosofia che celebra la biodiversità locale. Questo distillato racconta una storia di tradizione e audacia, di radici profonde e aspirazioni moderne, trasformando ogni sorso in un viaggio sensoriale attraverso i paesaggi mozzafiato di Islay. 

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Abbiamo incontrato Marco Fedele, brand ambassador di Molinari – distributore italiano dei prodotti della distilleria Bruichladdich– per scoprire i segreti di questo successo lungo più di due secoli. 

È impossibile parlare del The Botanist senza partire dalla storia di Bruichladdich, ci racconti i momenti chiave della distilleria? 

The Botanist

Bruichladdich viene fondata nel 1881, la storicità è sicuramente uno dei loro punti di forza e forse ancor di più il saperla mantenere pur innovandosi. Ideale perseguito negli anni grazie ad una grande visione e ad un team molto coeso. 

Tutto nasce dall’intuizione dei fratelli Harvey, già possessori di varie distillerie prima di Bruichladdich. Ancor prima di completare la struttura però, per una serie di classici litigi fra fratelli la distilleria andò in disuso entrando in un vortice di compravendita, anche di brand molto importanti, senza che mai nessuno la valorizzasse. Nonostante questo periodo difficile, non smisero di invecchiare le botti, e di sostenersi vendendo delle razioni del whisky più venduto al mondo; il glen schotch whisky, a grandi aziende. 

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Qual è il punto di svolta nella loro storia? 

La vera svolta avviene agli inizi del 2000, quando un gruppo di 50 investitori molto importanti -fra cui alcuni importatori di vino francese in Inghilterra- piuttosto che soffermarsi sulle condizioni della distilleria ne videro le potenzialità per creare un prodotto tradizionale e molto legato al territorio. 

Nel 2001 rinasce la vera tradizione Bruichladdich compiendo le scelte che l’hanno portata ad essere così riconosciuta a livello globale come ad esempio l’utilizzo esclusivo di materia prima scozzese, peculiarità non richiesta dal disciplinare; fra cui orzo ancestrale con una resa bassissima diventata la vera firma dei nostri prodotti. Oggi ci sono 14 agricoltori sull’isola che lavorano a questo prodotto, con tutte le difficoltà del caso, e durante i periodi più duri l’azienda arriva al massimo sulla terra ferma; non uscendo mai dai confini. 

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Altra peculiarità che sicuramente caratterizza i loro prodotti è la scelta di non fare filtrazione a freddo perché l’intenzione è quella di lasciare il prodotto stabile e limpido, donando una complessità aromatica e una forte densità al palato grazie a tutti gli esteri e oli naturali contenuti nel chicco. Il prodotto finito risulta quindi cremoso sì, ma ripulisce la bocca invogliando a bere un altro sorso.

Qual è stata, negli anni, la costante che ha portato la distilleria al livello attuale?

Guarda sicuramente tutte le scelte sono state sempre soppesate al millesimo e, nel tempo, hanno portato ai risultati sperati. Loro, ad esempio, credono fortemente che il vero plus ai prodotti, oltre che dai tini di fermentazione storici, sia dato dalle attrezzature storiche ed anch’io credo che sia così. 

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L’essenza della loro distillazione sta proprio in queste macchine di epoca vittoriana, e la scelta di continuare ad utilizzarle non è affatto scontata. Ti dico, il secolo scorso le persone capaci di apportare la manutenzione necessaria erano già poche; immagina oggi e a che costo poi. 

Sai il successo spesso sta in scelte contro corrente, come quella di imbottigliare in Scozia. Sono una delle pochissime distillerie che si fanno mandare le bottiglie, vuote, dalla Francia, e poi le spediscono in giro per il mondo; senza che nessun disciplinare lo imponga. 

Altra nota di merito è sicuramente il fatto di essere molto green come azienda, tutto il processo produttivo è a spiovente grazie ad una pendenza; il prodotto si muove solo grazie a degli ingranaggi azionati dal moto del prodotto stesso. E potrei dirtene ancora, basti pensare che stiamo parlando di una distilleria Be-Corp. 

Veniamo al The Botanist, come spinge dei distillatori di whisky scozzese a fare gin? 

Botanist nasce nel bellissimo 2010, come un vero e proprio azzardo del vecchio capo distilleria. Nonostante la radicata passione e la profonda devozione che hanno per il whisky volevano sperimentare nuovi prodotti. Lo studio del prodotto nasce circa 8 anni prima in un periodo molto difficile per le distillerie dei dintorni.  

I costi aumentavano e, come detto la manutenzione era molto complicata, sempre più aziende chiudevano. Proprio in questa fase loro raccoglievano e compravano le cose più interessanti dai “fuori tutto” delle distillerie. 

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Un giorno, durante una di queste “gite esplorative” in chiatta sul fiume, si ritrovarono alla distilleria di Inverleven dove, fra le varie apparecchiature acquistarono l’ultimo alambicco Lomond autentico del 1955. Parliamo di un prodotto molto particolare, un ibrido fra il continuo e il discontinuo con parti intercambiabili all’interno.

Da questo fortunato acquisto come si è arrivati alla produzione? 

L’idea, una volta rimesso in funzione, fu quella di prevedere una distillazione molto lenta con tanto contatto con il rame. Montarono quindi dei tubi a nido d’ape per avere, appunto, maggiore contatto con i vapori e posizionarono infine la camera d’infusione all’uscita dei gas nobili così da avere l’ultimo passaggio solo di questi, ottenendo un risultato simile a quello del tè, per intenderci. 

Per la produzione vengono usate 22 botaniche autoctone dell’isola, raccolte ciascuna nel suo periodo migliore, essiccate secondo le proprie esigenze, messe singolarmente in dei sacchetti e poi posizionate in questa camera raffreddata ad acqua.

Oltre quest’infusione, ci sono altre 9 botaniche fra cui il ginepro – tutte prese nei migliori angoli del mondo- che vengono riscaldate in 11,600 litri di alcool di cerali. Attenzione, non orzo, perché non volevano fare la stessa cosa. 

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Il risultato è un gin di 46°, perfettamente bilanciato grazie ai consigli degli esperti dell’isola, tagliato con acqua di Octomore. All’assaggio sensazione più importante è di freschezza donata dalle tre tipologie di menta presenti in distillazione, bilanciata dai sentori agrumati e sostenuti dal ginepro, protagonista di ogni sorso.

È da questo stesso prodotto che prende vita l’Islay Cask Rested Gin quindi? 

Esattamente. La sperimentazione non si è fermata alla distillazione, ma da qualche anno stanno alzando ancor di più il tiro con queste speciali realese maturate. Parliamo dello stesso prodotto che però fa almeno 6 mesi in botti di rovere usate per l’invecchiamento dei Bruichladdich. 

I gin maturati in botte di Islay trascendono la categoria, combinando la versatilità del gin con la complessità e la profondità donata dalle botti. 

Note di degustazione The Botanist Islay Cask Rested Gin.

Il risultato è un prodotto quasi cipria, favoloso da bere liscio, che si apre al naso con le classiche note di spezie calde e scorze di agrumi candite inserite in un bouquet dolce e seducente di ginepro e note floreali mitigate dal legno. 

La caratteristica forse più interessante è la vitalità del prodotto, che ad ogni annusata si evolve prima in frutta candita, poi in arancia e cannella e infine in cocco e mandorle. 

Al palato, a far da padrone è sicuramente la morbidezza del distillato. L’influenza della botte modella il distillato, apportando una maggiore viscosità al palato, mentre la sinfonia di erbe botaniche si combina con le spezie del legno per creare una profonda sensazione in bocca. Sul finale, l’influenza del rovere inizia a svanire, mentre il cuore di The Botanist si rivela in un susseguirsi di note di erbe fresche, ginepro, coriandolo e agrumi.

 

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Un prodotto da prediligere liscio, magari con un cubetto di ghiaccio, ma che nelle giuste mani può esaltarsi in miscelazione. Magari in un Negroni, bilanciando bitter e vermouth andando a ricreare le sensazioni di un Boulevardier; senza l’utilizzo del whisky. In fondo, bisogna sempre ricordare, e valorizzare, le origini di un distillato. 

 

 

 

 

 

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Antonio Galdi

Antonio Galdi, classe 00, si laurea nel 2022 in scienze gastronomiche mediterranee presso l’università di Napoli Federico II. Inizia a lavorare come aiuto cuoco in vari alberghi e ristoranti ma dopo un master in critica enogastronomica, inizia a pubblicare i suoi primi articoli. Adora la cultura pop legata al cinema, alla musica e alla letteratura italiana.